NEL BAGNO

NEL BAGNO
Le dita premettero sul bordo smaltato del lavabo. La decisione con cui le poggiò non nascose il tremore che la stava pervadendo. Era estremamente nervosa, agitata, ed eccitata. Incredula di trovarsi in quel bagno. In quella situazione.

Ora alzati, e vai alla toilette. Le disse qualche minuto prima.

Oddio, mi si è sbavato l’ombretto? Rispose un tantino allarmata.

No, il tuo trucco è impeccabile come sempre. Vai alla toilette, voglio scoparti lì. Glielo disse calmo e pacato portandosi il tovagliolo alla bocca, con lo sguardo fisso sulla sua incredulità.

Non era mai arrivato a quello, ma Roberta stava imparando a conoscerlo e sapeva che aveva lampi di voglia (lui li definiva così) come quelli. Quel che non sapeva era se a quel baleno di follia fosse capace di far seguire qualcosa di concreto.

Nella loro intensa frequentazione virtuale iniziata mesi prima e fatta di messaggi in chat, si erano confessati un sacco di pensieri arditi e fantasie trasgressive. L’arrivare a metterli in atto era stato tutto un altro discorso; fino a quella sera in uno dei più rinomati ristoranti della città. Poteva essere uno scherzo, una frase buttata per scuotere il noioso monologo a tavola (gli stava raccontando dei suoi gatti, come era solita fare, erano una tra le sue tante passioni).

Devi alzarti e andare in bagno, glielo ripeté scandendo le parole. Devi andarci, la fissò deciso, o questo nostro legame non andrà più da nessuna parte. A quelle parole e all’intensità dello sguardo che le accompagnava, non poté contrapporre l’idea di una semplice battuta. Di uno scherzo.

Roberta si alzò e percorse il salone, invasa da un miscuglio di emozioni. Aveva paura, si sentiva frastornata. Si rendeva sempre più conto, mentre oltrepassava i tavoli occupati da eleganti avventori, che quella assurda idea fattasi ordine si stava realizzando e che allo stesso tempo, cosa ancor più folle, la stava eccitando.

Ripetersi che poteva invece rivelarsi una burla le permise di arrivare alla toilette senza che le gambe le cedessero.

Era davanti allo specchio, in quel bagno enorme e lussuoso. La piastrellatura in bianco regalava una straordinaria luminosità all’ambiente, offrendo di conseguenza una ben maggiore, e rischiosa, esposizione. Sorrise imbarazzata ad una signora affianco che si ritoccava il fard, lei ricambiò di rimando e uscì. Era sola e stordita, ancora incapace di chiarire a se stessa se potesse vivere quella situazione come una favola o un incubo. Le sue direttive erano semplici: contare tre minuti dall’istante in cui si fosse alzata dal tavolo e, allo scoccare del terzo, sfilarsi le mutande e divaricare le gambe.

Era una follia. Non era possibile farle fare una cosa del genere. Andava bene se letta in un libro o vista in un film. Si poteva fantasticarla, goderne o sorriderci sussurrandola al telefono, ma arrivare a provarci davvero era da pazzi.

Prese dei respiri profondi e in un attimo, senza realizzare quel che stava succedendo, delle dita, le sue, raccoglievano la stoffa della larga gonna di cotone che si sollevava lentamente. Quando Roberta toccò il tessuto delle mutande lo sentì bagnato. Finse stupore misto a contrarietà, come se l’eccitazione che provava da quando ricevette quell’invito le fosse estranea e sgradita.

Fissando terrorizzata la porta se le sfilò di dosso ripiegandole e, rassicurata dal non sentire passi avvicinarsi, affondò naso e labbra. I tre minuti erano passati, doveva solo aspettarlo, voltarsi verso lo specchio, abbassare lo sguardo per non vederlo riflesso, appoggiare le mani al bordo del lavandino e attendere. E lo fece.

I suoi pensieri, frenetici e confusi, le parvero scivolare via in un attimo, come risucchiati da un gorgo, quando delle altre dita le entrarono nella fica. Man mano che queste la frugavano tra le pieghe carnose lei ingoiava aria a piccole boccate e spingeva sulle punte dei piedi.

Era abile con quei tocchi, penetrava, usciva, accarezzava, le faceva scorrere lungo tutto il sorriso verticale poi si soffermava con il pollice sulla linguetta proibita che sporgeva turgida e bagnata. Quando indice medio e anulare si allontanavano rilasciava respiro e muscoli, preparandosi ad una nuova ondata di piacere che non tardavano a procurarle. Fu così per un tempo che lei non riuscì a quantificare, preda come era di quei movimenti tanto abili, temibili, meravigliosamente creativi che le stavano plasmando pensieri e volontà.

Fu poi l’altra mano, posata tra le scapole, a farla chinare e dopo a infilarsi sotto la gonna e scostarle la coscia. Quando le gambe furono divaricate il giusto si ritirò, e febbrilmente armeggiò con la fibbia della cintura. Scorse la lingua di pelle scura da sotto la stanghetta, la liberò dal piccolo artiglio metallico infilato nel foro e la sfilò dalla cornice. La lasciò pendere e si dedicò alla zip dei pantaloni. Roberta sentiva il fiato caldo e incalzante dell’uomo scorrerle sulla schiena scoperta. Avvertì l’apice turgido del glande tastarle l’intimità fino ad insinuarsi nella fessura, sempre più bagnata, arresa al lavorio delle dita e pronta ad accogliere qualcosa di più grosso e rigido.

Sussultò ad ogni stoccata che le entrava in corpo. Lui continuava a gettarle soffi caldi sulle spalle e ad ansimare. Era così diverso dall’uomo che si era sempre limitato ad un gioco mentale, fermandosi un passo prima di quello carnale; controllando orgasmi e imponendo periodi di astinenza sessuale.

Ora la stava scopando e ci metteva impegno. Questo non cambiava le cose, Roberta sentiva di restare un giocattolo e di finire per essere solo una tacca sul fucile del cacciatore; ma adesso era lì e la stava montando come fanno gli a****li. E sbuffava perché ne godeva. Non era come le altre volte, che la faceva spogliare e dopo una serie di trastulli mentali tutto finiva. Adesso godeva del suo corpo, alitandoci sopra, fottendola da dietro, soffocando i gemiti nell’eccitante e selvaggia follia del raffinato bagno del Regency; con in sottofondo il vociare soffuso e composto dei clienti provenire dalla sala; con il terrore, di lei, di sentire passi in avvicinamento e la sconsiderata foga di lui nell’assestare colpi di bacino sempre più decisi, fino a quello culminante.

Mentre l’uomo le avanzava nel ventre Roberta si aggrappò alla bordatura del lavandino; quando avvertì l’ondata di piacere rompere gli argini si piegò sui gomiti. Non diede più importanza al posto in cui si trovava; non avrebbe sentito nemmeno la massiccia cadenza di un elefante sul gres porcellanato.

Ansimarono entrambi per diversi secondi poi l’uomo le afferrò la messa in piega e strinse mentre le veniva tra le cosce, rigò di un bianco viscoso i collant appiccandoli alla pelle poi lasciò la presa alla nuca ma non prima di aver sospinto la testa verso il basso, significandole di non sbirciare allo specchio.

Roberta regolò il respiro, deglutì, poi si sistemò il vestito, si puntellò i seni, ritoccò l’ombretto e si avviò verso il salone. Ripercorse il tragitto ancora incredula ma se il battito accelerato ed il marasma nel ventre non erano eloquenti prove che il fatto fosse accaduto davvero, lo sperma rappreso sul nylon antracite fugava ogni dubbio.

Appena svoltato l’angolo vide il suo uomo intento a conversare amabilmente con qualcuno. Li scorse attraverso il sottile fogliame di un bambù artificiale. Man mano che si avvicinava percepiva, in maniera sempre più netta, la sensazione che la loro chiacchierata durasse da un po’.

Da troppo, pensò confusa e inquieta. Lui, che le veniva davanti, reggeva un tumbler con dentro appena un dito di whisky e l’espressione di chi se lo sta sorseggiando beato e con tutta calma; tra le dita una sigaretta fumata per due terzi; dell’altro vedeva chiaramente la chiazza lucida e tondeggiante sul cuoio capelluto. Quel quadretto tanto gioviale cozzava enormemente con la situazione vissuta nel bagno, pochi metri e pochi minuti addietro. Roberta fu assalita da un dubbio raggelante ed i passi che la avvicinavano al tavolo si fecero difficoltosi come se avanzasse tra le sabbie mobili. Lo stomaco, che era stato appena sollazzato da spasmi voluttuosi, fu attanagliato in una improvvisa morsa di confusione e un crescente pizzicore di rabbia.

Finalmente il suo uomo sollevò lo sguardo mostrandole un largo e strafottente sorriso, e con tutta l’insolenza di cui era capace allargò le braccia in modo da indicarle, discretamente ma con chiarezza, tutti i presenti di genere maschile. Un fare atto ad ingenerarle una sola, semplice domanda: chi di noi ti ha scopata? Domanda che il suo uomo lasciò senza risposta sia quella sera che nei giorni seguenti. Si limitò ad alludere all’episodio ogni volta che, in chat o al telefono, le ricordava: ora sei una puttana a tutti gli effetti.

La mia, puttana.

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